giovedì, agosto 14, 2014

Black Mamba, il più grande del dopo-Jordan

Premessa: Kobe Bean Bryant è impossibile da raccontare in un articolo che stia dentro le 4000 battute. Impossibile spiegare quello che è stato il suo impatto sulla NBA e sul basket mondiale in un pezzo, diciamo che sarebbe meglio provarci con un libro. E allora, ora che il figlio di Joe Jellybean Bryant sta per compiere 36 primavere, e la sua diciannovesima stagione nella Lega è quasi alle porte, potremmo cominciare facendo come hanno fatto alla Lower Merion High School di Ardmore, nei sobborghi di Philadelphia, nella foto qui a lato. Facendo parlare i numeri, cioè.
31700 punti, quarto di ogni epoca, a meno di seicento punti da Michael Jordan. Cinque titoli NBA. Due volte MVP delle finali, una volta MVP della stagione regolare, quattro volte MVP dell'All-Star Game, per il quale è stato selezionato 16 volte. 5640 punti nei playoff, terzo di ogni epoca. Due volte miglior realizzatore della NBA, di cui una a 35.40 punti a partita, la media più alta degli ultimi 27 anni e la seconda più alta dal 1968 a oggi.  Ha un massimo in carriera di 81 punti in una partita, secondo solo ai 100 punti di Wilt Chamberlain. Un mese prima, ne aveva segnati 62 in 32 minuti. Undici volte nel primo quintetto della NBA. Due volte medaglia d'oro alle Olimpiadi, a Pechino nel 2008 e a Londra nel 2012.
Eppure, i numeri sono freddi, non c'è niente da fare.
Kobe è stato, e tuttora è, il giocatore offensivamente più completo della NBA. Uno di quelli che può farti male in qualunque modo. Gli lasci spazio libero per il tiro, ti punisce. Gli stai attaccato, ti batte in uno contro uno. Cerchi di contenergli la penetrazione, ti segna in arresto e tiro. Lo porti verso l'aiuto, segna in acrobazia. Riesci a contenerlo, spendendo magari un fallo, e ti punisce dalla lunetta. Non è tanto l'atletismo di Bryant, quello che ti stupisce, quanto la coordinazione abbinata alla tecnica.
Nella sua ormai lunga carriera, Kobe Bryant è riuscito a convivere per otto anni con Shaquille O'Neal, presenza ingombrante in tutti i sensi, e a portare a casa un three-peat, tre titoli consecutivi vinti tra il 2000 e il 2002 (più una finale persa nel 2004), senza per questo sembrare "meno" superstar, con il ruolo di primo e secondo violino che si scambiava continuamente tra lui e The Diesel. Partito Shaq, dopo soli tre anni è riuscito a tornare al top, questa volta da protagonista indiscusso, affiancato da Pau Gasol e da quello che all'epoca si chiamava ancora Ron Artest, che oggi si chiama Metta World Peace e domani chissà:  altre tre finali NBA consecutive, dal 2008 al 2010, altri due titoli all'attivo. Nel periodo che va dal 2000 al 2010, i Los Angeles Lakers sono stati in finale per sette volte su undici stagioni.   Nello stesso periodo, nessun altra squadra è stata in finale più di tre volte.
Così, come non prendere sul serio la dichiarazione da lui rilasciata al termine della stagione appena trascorsa, quella in cui lui ha giocato solo sei gare a mezzo servizio prima di rompersi il tendine d'Achille? Ecco, questo è quello che ha detto il figlio di Jellybean: "Questo per noi è stato un anno difficile, e quello che vorrei che tutti noi facessimo è rilassarsi e assorbire quello che è stata questa stagione. Percepite tutto l'odio che c'è nei nostri confronti e ricordatevi di ogni persona che si è presa gioco di voi quando eravate a terra perché il prossimo anno non andrà in questo modo. La vendetta sarà dolce e veloce. Usate l'odio come motivazione, come spinta a voler chiudere la bocca a tutti quanti. È questa la sfida che ci deve guidare tutti. Sicuramente è la sfida che mi motiva a tornare ancora più forte di prima".
La sfida è la più difficile di sempre: Gasol è partito, ma i Lakers hanno aggiunto al roster due ali di solido rendimento in Carlos Boozer e (sopratutto) Ed Davis, due che possono portare doppie doppie in punti e rimbalzi praticamente in ogni partita, oltre al rookie Julius Randle che lo scorso anno a Kentucky ha fatto una stagione da protagonista assoluto. Così a occhio, servirebbe un play (Steve Nash e Jeremy Lin, oggettivamente, non danno garanzie sufficienti al riguardo), ma quando una squadra ha uno come Kobe, è già a metà dell'opera. Il resto della NBA è avvisato: il giocatore più forte del dopo-Jordan non ha ancora intenzione di cedere lo scettro a quello che è tornato a giocare in riva al lago Erie.

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