martedì, dicembre 01, 2015

Kobe Bryant: un altro modo di essere Jordan


In casa mia c'è una scatola dove conservo un tot di card 
di giocatori NBA degli anni 90. C'è anche questa, si.
Dear basketball,
From the moment
I started rolling my dad’s tube socks
And shooting imaginary
Game-winning shots
In the Great Western Forum
I knew one thing was real:
I fell in love with you.
A love so deep I gave you my all —
From my mind & body
To my spirit & soul.
As a six-year-old boy
Deeply in love with you
I never saw the end of the tunnel.
I only saw myself
Running out of one.
And so I ran.
I ran up and down every court
After every loose ball for you.
You asked for my hustle
I gave you my heart
Because it came with so much more.
I played through the sweat and hurt
Not because challenge called me
But because YOU called me.
I did everything for YOU
Because that’s what you do
When someone makes you feel as
Alive as you’ve made me feel.
You gave a six-year-old boy his Laker dream
And I’ll always love you for it.
But I can’t love you obsessively for much longer.
This season is all I have left to give.
My heart can take the pounding
My mind can handle the grind
But my body knows it’s time to say goodbye.
And that’s OK.
I’m ready to let you go.
I want you to know now
So we both can savor every moment we have left together.
The good and the bad.
We have given each other
All that we have.
And we both know, no matter what I do next
I’ll always be that kid
With the rolled up socks
Garbage can in the corner
:05 seconds on the clock
Ball in my hands.
5 … 4 … 3 … 2 … 1


Love you always,
Kobe



Ecco, io vorrei far parte di una di queste schiere, tipo gli insensibili e quelli che hanno sempre trovato una buona ragione per odiarlo, o ancora meglio far parte di quelli che riescono ad analizzare freddamente la cosa, ma il fatto è che più ci penso e meno ci riesco, così sono qui incartato tra il bisogno di scrivere qualcosa su Kobe Bryant che dà l'addio alla pallacanestro giocata, e l'incapacità di farne un pezzo che abbia pretese più o meno giornalistiche, che non vada oltre l'elenco delle cifre - che da sole dicono tanto, anzi, forse per certi versi dicono tutto quello che c'è da sapere.  Peraltro, tempo fa ci avevo pure già provato, a fare un pezzo su di lui basandomi sulle cifre, quindi che senso aveva, fare un semplice aggiornamento di quello che era stato scritto in precedenza, neanche troppo tempo fa? Ok, si cambia approccio, anche se temo ne verrà fuori una roba che starebbe meglio su Bastonate, che però col basket non è che c'entri tantissimo, ma insomma.
La prima volta che ho sentito parlare di Kobe Bryant è stato quasi 20 anni fa, quando internet era a 56k, bisognava andare negli internet point dove si pagava dodicimila lire l'ora, e le notizie più fresche ti arrivavano quando, una volta ogni due settimane, compravamo American SuperBasket, sempre sia lodato.  Ne parlavano come di un fenomeno che veniva direttamente dalle High School, come Shawn Kemp e Kevin Garnett prima di lui, ma forse potenzialmente un po' meno forte. Ricordo che lo presero gli Charlotte Hornets, che però alla fine non l'hanno visto mai, e che era stato chiamato con la 13 in un draft come non se ne vedevano da tempo e come non ne avremmo visti più per parecchio tempo dopo.  Fatte le debite eccezioni, quell'anno al draft andò bene più o meno a tutti. Mi aveva sempre impressionato la cosa che Kobe esordì con zero punti in NBA, e che l'Adidas gli faceva fare quella pubblicità dove diceva, in italiano, "se non credi in te stesso, chi ci crederà?", e poi la vittoria allo Slam Dunk Contest 1997, l'All-Star Game 1998 quando difendeva su Jordan e gli chiedeva "come sto andando?". Il suo apprendistato in NBA è durato grosso modo tre anni, nei quali non è che sembrasse un pesce fuor d'acqua, eh. Diciamo piuttosto che si trovava a dover imparare a stare in una Lega che viveva forse il suo momento di massimo splendore nel ruolo di guardia tiratrice (c'è bisogno che vi faccia i nomi?) ma comunque col senno di poi, i Lakers ci avevano visto leggermente più lungo degli Hornets.
Il punto è che Kobe stava antipatico per tante cose che ha fatto nella sua carriera, dalla scelta di cambiare il numero dall'8 al 24, che ok, possiamo dare tutte le motivazioni del mondo, ma ad essere malpensanti, guarda caso, è giusto giusto 23+1. Dalla squadra in cui giocava, quei Lakers con Shaq e lui (e Derek Fisher, e Robert Horry eccetera), che dal 2000 al 2002 agli avversari hanno lasciato giusto le briciole, non sto a citare le cifre perché non è di questo che voglio parlare, lo ripeto. Kobe stava antipatico a tanti perché una volta partito The Big Diesel destinazione Miami, lui continuava a programmare viaggi alle finali NBA, a vincere anelli, a spiegare la Triangle Offense - che fu dei Bulls di Jordan e poi sua - a compagni e avversari, come disse una volta quel giornalista che quando parlava di basket era il più bravo di tutti, e poi a un certo punto ha deciso che da quel giorno lì in poi si sarebbe dedicato al calcio: "Kobe agli allenamenti interroga i compagni sull'attacco triangolo" "E come fa con Artest?" (che ancora si chiamava così, eh) "No, lui non lo chiama...". E insomma, ecco, Kobe stava sulle scatole a tanti, tantissimi appassionati di basket perché ci ha sempre avuto tutto per emergere, e alla fine è emerso. Aveva fisico, testa, tiro, coordinazione, intelligenza cestistica, cattiveria agonistica, intensità difensiva, leadership, giocava in una squadra stellare facendo a volte il secondo violino e a volte il primo incontrastato. Kobe è stato per la mia generazione (ha un anno esatto in più rispetto a me che scrivo) quello che Jordan è stato per quella dei nati negli anni sessanta e forse Steph Curry sarà tra breve per quelli nati dieci anni dopo di me: la dimostrazione che lui non avrebbe potuto che riuscire, perché aveva tutto per fare bene e non aveva neanche la minima intenzione di sprecare la possibilità che gli era stata data in sorte.
E però è stato un modello di riferimento troppo alto, uno che ci ha fatto vedere che se di Jordan ce n'era stato uno solo, c'era comunque un altro modo di essere Jordan, di essere, cioè, dominanti in The League. Perché essere dominanti non è una questione di cifre, no, non c'entra quasi niente. Significa che quando tu guardi una partita dove gioca quel tizio lì che rientra nella categoria, sai che l'avversario di turno lo guarderà comunque come si guarda una minaccia costante, come immagino si dovesse guardare la linea nemica nelle guerre di trincea, che anche se non succede niente per un sacco di tempo, sai che da lì, in qualsiasi momento, può arrivare il pericolo. E questo trascende i tot mila punti in carriera, gli x anelli in y finali, i titoli di MVP e tutto l'accumulato.  Significa che quando lui è in campo, magari l'avversario di turno lo marca duro, magari - se può, soprattutto quest'anno - cerca di abusarne, ma accettando comunque il rischio di uscirne mentalmente distrutti. E tutto questo mostrando una superiorità quasi sempre manifesta, quasi mai ostentata, non una roba da bulletto del quartierino come si usa tra gli sportivi di oggi (più nel calcio, a dire il vero), più una cosa alla Pink Floyd Live At Pompeii, quando Roger Waters dice "It's like saying, Give a man a Les Paul guitar and he becomes Eric Clapton. It's just not true. Give a man an amplifier and a synthesizer and he doesn't become us either." Ecco, Kobe è diventato Kobe dimostrando a tutti che non basta avere un po' di tecnica e di fisico per diventare "il più grande del dopo-Jordan" (auto-cit.). Bisogna volerlo.  E questa è una roba che ci ha scassati dentro, a noi che andavamo a fare allenamenti in palazzetti freddi e piccoli, il fatto che sì, c'era quello più bravo e quello meno bravo, ma che a fare la differenza erano, sono e sempre saranno i cavolo di intangibles, che non bisogna solo volerli fare, ma esserne all'altezza. Anch'io che ero l'ultimo degli incapaci potevo fare un'occhiataccia ad un compagno per un movimento fatto male in attacco, per un tiro forzato o per una mancata rotazione difensiva, o provare a fare lo stesso con un avversario irrispettoso nei miei confronti, ma dubito che chicchessia si sentisse non dico raggelato, ecco, ma nemmeno granché intimorito.
Kobe è Kobe, è stato Kobe e sempre lo sarà. Non ci sarà mai un altro Kobe Bryant in NBA, e il fatto che abbia mosso i primissimi passi cestistici in Italia è una roba che dovrebbe renderci tutti fieri, altro che "orgoglio italiano" e cose simili, e invece questo annuncia che smette di giocare alla fine di quest'anno, lo fa con una lettera che è una dichiarazione d'amore al basket, e il giornalismo italiano non trova di meglio da fare che (qui vi giuro che non sto inventando, anche se potrebbe sembrare) 1) sentire Max Allegri al riguardo, che è come se io domani vado da Billy Corgan e gli chiedo che ne pensa della querelle Rossi vs. Marquez; o ancora peggio 2) rilanciare la possibilità che Bryant si faccia quell'anno alla Virtus Bologna che forse avrebbe potuto essere, ma forse anche no, e infatti poi non è stato, nel 2011, e che non avrebbe nessunissimo senso se fosse, nel 2016. Qui ci siamo trovati di fronte ad uno che è una bestemmia non mettere nei primi 10 di ogni epoca, magari ci metteremo ancora un po' a metabolizzarlo, e quest'uno ora ha deciso che per lui può bastare. Così per me ha poco senso - anzi, non ne ha affatto - dividersi tra i "pro-Bryant" e gli "anti-Bryant":  sarebbe, è, sarà molto più onesto intellettualmente fare tanto di cappello a questo signore, tributargli la standing ovation che merita, riguardarsi allo sfinimento i video su YouTube delle sue migliori giocate. Discutere del valore di Kobe Bryant è un po' come quando ti trovi di fronte ad una di quelle belle donne che dici "ah però!", che siamo tutti d'accordo a dire "ah però!" e poi arriva l'amico che è sempre pronto a vedere il pelo nell'uovo e ti dice che ha le dita dei piedi brutte, e tutti sentono il dovere morale di coprirlo di mazzate.

Queste, se la memoria non m'inganna, 
sono le scarpe di cui al già citato spot
Per la cronaca, io che non ho mai tifato Lakers, che i miei idoli cestistici del durante-e-dopo-Jordan sono stati, nell'ordine, Jason Kidd, Dwyane Wade, Allen Iverson, Alonzo Mourning e toh, LeBron James, queste scarpe qua sopra me le volevo far regalare per davvero, conscio del fatto che erano di Bryant, ma poi andò a finire che ne presi un paio che erano per l'appunto di Iverson, ma fa lo stesso. Prendersi un paio di scarpe di un certo giocatore, a livello sportivo-semantico, è un po' come comprarsi la maglia del Barcellona perché ti piace Leo Messi anche se poi in cuor tuo tifi Real Madrid. Perché ci sono sportivi che vanno al di là del tifo, e non sono tantissimi, e proprio per questi sono speciali. Perché ad un certo punto la discussione si ferma, deve fermarsi, e tutti possono convenire che "fermi tutti, se si discute lui è finito il basket". Kobe è stato Kobe, e scusate se è poco, non ci sarà bisogno per lui di discutere se scrollarsi di dosso l'etichetta di "nuovo Jordan". Casomai, saranno gli altri a doversi contendere lo scettro, ipotetico e ovviamente chimerico, di "nuovo Kobe". Di giocatori così ne nasce uno ogni generazione, se va bene. Pensate che fortuna abbiamo avuto, ad essere cresciuti vedendolo giocare.

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